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Dopo il grande successo della retrospettiva dedicata a Robert Capa, Riccione è pronta ad ospitare due nuovi straordinari eventi espositivi a Villa Mussolini: “VIVIAN MAIER. Il ritratto e il suo doppio”, dal 20 aprile al 3 novembre 2024, “Jacques Henri Lartigue – André Kertész LA GRANDE FOTOGRAFIA DEL NOVECENTO”, dal 23 novembre 2024 al 6 aprile 2025.
La mostra “VIVIAN MAIER. Il ritratto e il suo doppio” è dedicata alla grande fotografa americana che ha trascorso tutta la vita nel più totale anonimato, fino al 2007, quando è venuto alla luce il suo straordinario corpus di fotografie, scattate nelle strade di New York e Chicago. I suoi anonimi personaggi si fondono, a volte, e si sovrappongono alla sua stessa immagine riflessa, in una continua ricerca di identità. La mostra, racchiusa in 92 scatti dischiude al visitatore l’arte di Vivian Maier, una delle più acclamate rappresentanti della street photography e lo trasporta nel mondo che lei ha ritratto in maniera così straordinaria e moderna.
La straordinaria stagione culturale di Riccione proseguirà anche in autunno quando Villa Mussolini ospiterà la prima assoluta italiana di due maestri della fotografia mondiale: Jacques Henri Lartigue e André Kertész, l’uno considerato il maestro dell’istantanea, l’altro il grande interprete della fotografia più riflessiva. La straordinaria esposizione di Riccione, composta da oltre 124 fotografie in bianco e nero, riunisce in un unico percorso espositivo le immagini più celebri di due dei più grandi maestri della fotografia del Novecento.
Riccione, con le sue residenze storiche di Villa Mussolini e Villa Franceschi, si sta confermando sempre più come sede di importanti eventi espositivi che spaziano dalle grandi mostre fotografiche dei maggiori artisti internazionali di tutti i tempi alla ricerca di nuovi linguaggi della contemporaneità. Nella sua proposta culturale Riccione mette al centro le grandi mostre con una programmazione ambiziosa e apprezzata, capace di trasformare la città in una destinazione turistica e culturale tutto l’anno.

92 scatti realizzati prima con la fotocamera Rolleiflex e poi con la Leica e alcuni video girati in Super8 trasportano idealmente i visitatori nelle strade di New York e di Chicago, dove i continui giochi di ombre e riflessi mostrano la presenza-assenza dell’artista che, con i suoi autoritratti, cerca di mettersi in relazione con il mondo circostante. Gli scatti raccontano la sua vita in totale anonimato fino al 2007, quando il suo immenso e impressionante lavoro, composto da più di centoventimila negativi, filmati Super 8mm e 16mm, diverse registrazioni audio, fotografie stampate e centinaia di rullini non sviluppati, venne scoperto in bauli, cassetti e nei luoghi più impensati da John Maloof, fotografo per passione e agente immobiliare per professione che li acquista un po’ per caso, salvandoli dall’oblio e rivelando al mondo l’immenso patrimonio fotografico di Vivian Maier.
In tutti questi scatti si riconosce un’incessante ricerca per dimostrare la propria esistenza, non certo per una rappresentazione edonistica, ma la disperata affermazione di sé e la fuga da un’esistenza invisibile. Grazie a quel ritrovamento una “semplice tata” è riuscita a diventare, postuma, “la grande fotografa Vivian Maier”. In tutto il suo lavoro, ci sono temi ricorrenti: scene di strada, ritratti di anonimi estranei e persone con cui potrebbe essersi identificata, il mondo dei bambini ma emerge un’ evidente predilezione per gli autoritratti. Lei stessa appare in molti scatti, con una moltitudine di forme e variazioni, a tal punto da configurare una sorta di linguaggio all’interno del suo linguaggio. A differenza di Narciso, che si distrusse nella contemplazione e nell’ammirazione della propria immagine, l’interesse di Vivian Maier per il ritratto di sé è piuttosto una disperata ricerca della sua identità.
Costretta in una “invisibile non-esistenza”, a causa del suo status sociale, Vivian Maier ha silenziosamente e discretamente iniziato a produrre prove irrefutabili della sua presenza in un mondo in cui sembrava non avere posto. Riflessi del suo viso in uno specchio, la sua ombra che si allunga sul terreno, il contorno della sua figura: ogni autoritratto di Vivian Maier è una affermazione della sua presenza in quel luogo particolare, in quel momento particolare. La caratteristica ricorrente che è diventata una firma nei suoi autoritratti è l’ombra. L’ombra, quel duplicato del corpo in negativo, “scolpito dalla realtà”, che ha la capacità di rendere presente ciò che è assente. All’interno di questo dualismo, Vivian Maier ha giocato con il sé e con il suo doppio. E poiché una fotografia, come ha detto Edouard Boubat, è “qualcosa di strappato alla vita”, nel caso di Vivian Maier, i suoi autoritratti accumulati configurano una precisa identità, che ora ha preso il suo posto in un presente perpetuo, costantemente ripetuto e sigillato dalla Storia.
Vivian Maier nasce a New York, il 1 febbraio 1926, i genitori presto si separano e viene affidata alla madre, che si trasferisce presso un’amica francese, Jeanne Bertrand, fotografa professionista. Negli anni Trenta le due donne e la piccola Vivian si recano in Francia, dove vive sino ai 12 anni. Nel 1938 torna a New York e per oltre quarant’anni è solo una “tata francese” mentre, nella stanzetta messa a disposizione dalla famiglia presso cui abita, coltiva una passione immensa: la macchina fotografica Rolleiflex poggiata sul ventre, e poi la Leica davanti agli occhi. Riproduce la cronaca emotiva della realtà quotidiana. I soggetti delle sue fotografie sono persone che incontra nei quartieri degradati delle città, frammenti di una realtà caotica che pullula di vita, istanti catturati nella loro semplice spontaneità. La fotografia era il suo hobby
totalizzante e ha finito per renderla una delle più acclamate rappresentanti della street photography, collocata, nella Storia della Fotografia, accanto a grandi fotografi come Diane Arbus, Robert Frank, Helen Levitt e Garry Winogrand. In tutto il suo lavoro ci sono temi ricorrenti: scene di strada, ritratti anonimi estranei e persone con cui potrebbe essersi identificata, il mondo dei bambini – che è stato il suo mondo per così tanto tempo – ma emerge una evidente predilezione per gli autoritratti. Lei stessa appare in molti scatti.
La mostra esplora proprio il tema dell’autoritratto di Vivian Maier a partire dai suoi primi lavori fino alla fine del Novecento. Le sue ricerche estetiche si possono ricondurre a tre categorie chiave, che corrispondono alle tre sezioni della mostra, allestite dopo un’introduzione biografica.
La prima è intitolata L’OMBRA. Vivian Maier ha adottato questa tecnica utilizzando la proiezione della propria silhouette. Si tratta probabilmente della più sintomatica e riconoscibile tra tutte le tipologie di ricerca formale da lei utilizzate. L’ombra è la forma più vicina alla realtà, è una copia simultanea. È il primo livello di una autorappresentazione, dal momento che impone una presenza senza rivelare nulla di ciò che rappresenta.
Attraverso IL RIFLESSO, a cui è dedicata la seconda sezione, l’artista riesce ad aggiungere qualcosa di nuovo alla fotografia, con l’idea di auto-rappresentazione; impiega diverse ed elaborate modalità per collocare sé stessa al limite tra il visibile e l’invisibile, il riconoscibile e l’irriconoscibile. I suoi lineamenti sono sfocati, qualcosa si interpone davanti al suo volto, si apre su un fuori campo o si trasforma davanti ai nostri occhi. Il suo volto ci sfugge ma non la certezza della sua presenza nel momento in cui l’immagine viene catturata. Ogni fotografia è di per sé un atto di resistenza alla sua invisibilità.
Infine, la sezione dedicata a LO SPECCHIO, un oggetto che appare spesso nelle immagini di Vivian Maier. È frammentato o posto di fronte a un altro specchio oppure posizionato in modo tale che il suo viso sia proiettato su altri specchi, in una cascata infinita. È lo strumento attraverso il quale l’artista affronta il proprio sguardo.
La mostra celebra non solo il talento di una grande artista, ma invita anche il pubblico a riflettere sulla bellezza della quotidianità e sull’arte di cogliere l’effimero. È a disposizione di tutti i visitatori una utilissima audioguida che accompagna il percorso espositivo.
La straordinaria mostra, curata da Anne Morin con Alberto Rossetti, è promossa dal Comune di Riccione e organizzata da Civita Mostre e Musei in collaborazione con diChroma photography e Rjma Progetti Culturali.

Jacques Henri Lartigue e André Kertész sono nati lo stesso anno a cavallo tra il XIX e XX secolo. Avrebbero potuto conoscersi a Parigi tra le due guerre, ma il loro primo incontro non avvenne prima del 1972, a New York.
Hanno esposto al MoMA rispettivamente nel 1963 e nel 1964, dove sono stati descritti come un dilettante primitivo l’uno e come “l’inventore del fotogiornalismo”, l’altro. Entrambi pionieri della fotografia moderna, hanno lasciato opere con un’estetica singolare. Queste mostre sono state un momento cruciale che hanno segnato per Lartigue l’inizio del riconoscimento internazionale e istituzionale e per Kertész la riscoperta, dopo due decenni più silenziosi. Le due mostre hanno inoltre contribuito ad affermare lo stile dei due fotografi nella prima metà del XX secolo, identificandoli come precursori di una modernità visuale.
Lartigue è considerato un maestro dell’istantanea, Kertész un maestro della fotografia riflessiva. Lartigue e Kertész non hanno mai intrapreso il percorso più facile verso il riconoscimento. Hanno costruito le loro opere con la massima libertà, lontano dai grandi movimenti artistici. A partire dagli anni 70, queste due personalità indipendenti venivano considerate come modelli senza scuola. Mettere in parallelo le loro fotografie, permette di mostrare sia le loro convergenze che le loro divergenze di vita e di punti di vista.
La mostra curata da Marion Perceval e Matthieu Rivallin, è promossa dal Comune di Riccione e organizzata da Civita Mostre e Musei in collaborazione con diChroma photography e Rjma Progetti Culturali.

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